Ridare alle Regioni le competenze costituzionalmente spettanti, rafforzare un sistema di dialogo tra le varie istituzioni. È questo il nodo centrale di una nota pubblicata sul sito della Giunta della Regione Basilicata e dalla quale si evince la necessità di ridare alle istituzioni Regionali un ruolo centrale nella gestione dell’emergenza sanitaria attualmente in atto, in applicazione di una serie di principi costituzionali che regolano il rapporto Stato/Regioni, tra cui quello di sussidiarietà – disciplinato dall’art. 118 Cost. il quale prevede l’intervento dello Stato nelle attività delle Regioni solo qualora ciò fosse necessario ed in via temporanea, al fine di restituire a queste ultime l’autonomia necessaria. E nonostante l’impianto normativo utilizzato dal Governo per la gestione della situazione scopre il fianco a non poche contestazioni circa la sua legittimità Costituzionale, dal canto loro, le Regioni, come si legge nella nota, hanno accettato di vedere compresse le loro autonomie e le loro competenze – in netto contrasto con gli artt. 3 comma 2 e 117 Cost – in vista della tutela di un bene superiore, quale il bene vita.
Un accentramento di potere, da parte del governo, che non si giustifica con l’iter legislativo messo in atto, incostituzionale ed antidemocratico, data la scelta del governo di manipolare diritti costituzionalmente protetti attraverso DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) che, dal punto di vista delle gerarchia delle fonti, non hanno alcun valore di legge, ma rappresentano atti meramente amministrativi (al pari di una circolare), che non possono – e non devono – agire sulle libertà individuali dell’uomo. Se poi si considera che attraverso questo sistema è stato completamente abbattuto il principio democratico che presuppone la sovranità del popolo che la esercita nei modi e nei limiti previsi dalla legge, e che quest’ultima è di competenza del Parlamento e non del Governo, ciò che risulta da tutta questa situazione è un pasticcio giuridico senza pari. Sul punto, infatti, nei giorni scorsi, sono intervenuti diversi autorevoli Cosituzionalisti, tra cui il prof. Sabino Cassese – “[…] Una pandemia non è una guerra. Non si può quindi ricorrere all’articolo 78. La Costituzione è chiara […]”. Assunto, quest’ultimo, che manderebbe a monte tutte le misure sinora adottate dal Premier.
In tal senso, non solo il prof. Cassese, ma anche l’ex Presidente della Corte Costituzionale, Antonio Baldassare, argomentando sul nuovo provvedimento del Premier, secondo cui sarebbe palesemente incostituzionale in quanto fortemente discriminatorio nei confronti di tutta una serie di situazioni che sono costituzionalmente protette, manipolando libertà e diritti costituzionali con atti che non hanno assolutamente valore di legge, ma ne più ne meno che valore di circolare. In altri termini, secondo l’ex presidente della consulta nell’intervista rilasciata ad ADNKRONOS, il governo, in barba alla nostra norma fondamentale, imporrebbe, arbitrariamente, un potere autoritativo che, di fatto, non ha. Prova di siffatta arbitrarietà ed autritarietà è il frequente uso di termini come “noi consentiamo”, “noi permettiamo”; espressioni “apparentemente marginali” – come sottolinea il costituzionalista.
Ma se fino all’ultimo DPCM i Governatori delle Regioni hanno “chiuso un occhio” su tali misfatti giuridici, ora la situazione è cambiata. Nodo centrale della questione, infatti, è proprio la violazione dei quattro principi citati (principio democratico, principio di eguaglianza sostanziale, competenza stato regione e sussidiarietà) la cui illegittima compressione non sembra più essere oltremodo tollerabile.
Ogni regione ha le sue criticità e le sue peculiari esigenze socio-economiche e terrioriali– si legge nella nota – che ogni rispettivo governatore conosce, la risoluzione e la cui tutela difficilmente possono essere attuate a livello centrale (ratio, tra l’altro, dell’esistenza delle autonomie regionali). In altri termini, non si comprende perché le regioni italiane, che hanno una situazione epidemiologica sostanzialmente differente, debbano rispettare una normativa governativa che impone le medesime restrizioni a tutti, oltretutto concedendo alle amministrazioni regionali la possibilità di prevedere di misure ancora più restrittive. Si tratta di una lapalissiana distorsione di quel principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2) che si traduce nell’assunto “a parità di condizione, parità di trattamento”. Principio palesemente violato.
Le richieste degli enti regionali sono tanto semplici quanto importanti allo stesso tempo. In primis appar d’uopo strutturare un sistema di collaborazione tra governo centrale e regioni maggiormente in linea con i principi costituzionali. Auspicabile in tal senso l’emanazione, da parte del governo di una serie di cornici di riferimento, emanati con atti primari- e dunque sottoposti al controllo parlamentare – da integrare, nei limiti del riparto di competenza stato/regioni, attraverso atti normativi emanati da queste ultime, in relazione alle specifiche condizioni dei vari territori. In ogni caso l’attività normativa – si legge nella nota – dovrà essere sottoposto a rigoroso controllo del Governo e utilizzare “parametri scientifici oggettivi riferiti ad ogni sistema sanitario regionale, come ad esempio la saturazione dei posti letto [in terapia intensiva / semi-intensiva] o l’indice R0, con scansioni temporali settimanali.”
Ma l’attenzione delle istituzioni regionali si concentra maggiormente sul mondo del lavoro e delle attività produttive. “La salute è il primo e imprescindibile obiettivo, ma non può essere l’unico. Del resto il bene della vita ‘salute’ è caratterizzato da una molteplicità di profili: innanzitutto, fisico e psicologico ed è evidente che quest’ultimo è gravemente compromesso dalla perdita del lavoro e dai debiti” si legge ancora nella nota, Concetto quest’ultimo, che lascia trasparire le preoccupazioni dei governatori delle regioni di un imminente collasso di tutto il sistema economico caratterizzato, nella maggior parte del territorio nazionale, da micro imprenditoria, artigianato, liberi professionisti e lavoratori autonomi. Tutte categorie alle quali il DPCM del 26 aprile scorso priva gli incassi ancora per un mese, con il naturale effetto di un rischio di chiusura delle rispettive attività, lasciando senza stipendio (e quindi senza alcuna forma di sostentamento) i propri dipendenti. Situazione che richiede una particolare sensibilità da parte del Governo, al quale si chiede una riforma del DPCM del 26 aprile in senso più flessibile in modo da comprimere le libertà costituzionali in misura strettamente proporzionale all’esigenza della tutela della salute, auspicabile che alle singole Regioni sia data la facoltà di calibrare le aperture delle varie attività produttive, ritenendosi assolutamente inadeguato un sistema di regole tarato sulla tipologia di attività svolta consentite in base ai codici ATECO. Sarebbe pertanto più opportuno e funzionale definire le aperture in virtù della capacità effettiva di rispettare e far rispettare le misure di sanità pubblica atte a evitare il diffondersi del virus, da definire in modo chiaro sulla base dell’interlocuzione tra Pubblica Amministrazione, associazioni di categoria e sindacati e comunque non meno restrittive di quelle contenute nel DPCM 26 aprile 2020.
Giuseppe Innocenzo Liccese